Per il carnevale e la prossima festa della donna la trattoria ultrasessantenne “Nennella” ai Quartieri Spagnoli di Napoli si sta attrezzando per distribuire coriandoli e centinaia di fascetti di mimose, che più degli altri fiori annunciano l’arrivo della primavera.
Ma soprattutto si regala allegria che sprizza dai pori di tutti i “guaglioni” che fanno vivere in mezz’ora un’esperienza unica. Infatti non è concesso di più al cliente dato che il segreto sta nel prezzo più che conveniente che, attraverso la velocità del servizio e la velocità di gustare le pietanze, permette a quello successivo di occupare subito il posto lasciato vuoto.
E poi… tante, tante chicche che si vanno ad aggiungere al menù stupendo! “Guagliò acalate o panaro” e tutti in coro “Grazieee!” Cominciamo proprio dalla fine del nostro viaggio gastronomico nel ventre di Napoli alla ricerca della vera cucina napoletana e delle sue tradizioni.
E proprio questi “guagliòni” sono il cuore di “Nennella”, che dal 1949 apre le porte a a chi si inerpica nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, avviandosi da Toledo. Nella nostra città il soprannome ha un valore fondamentale e potremmo dire sociologico, che accompagna l’individuo da quando si affaccia nel contesto del vivere civile fino alla morte. Infatti i necrologi di cui sono tappezzate le strade nei pressi delle abitazioni del “de cuius” riportano in piccolo il nome dello scomparso e con maggiore evidenza il soprannome con il quale egli era noto.
Napoli è da sempre la città in cui la vita e la morte sono un tutt’uno nel ciclo del perenne divenire dove il cibo è il viatico per una esistenza lunga e sana. Ritornando ai guagliòni li vogliamo citare più che per nome per i loro soprannomi: Luigi detto “anonimo”, Manuele detto “Calaiò”, Gaspare detto “gasparino”, Alfredo detto “Dilty Dance”, Lello più noto come “Peso Piuma” o “u Nipotin”, Alessandro “o pinguino”, Alfonso per tutti “Chicco” ed Emanuele (ciuffo).
Tante sono le storie che si raccontano tra i tavoli dell’osteria. Ci dice Mariano il cuoco, detto l’ “Estrosità” in una pausa della sua frenetica giornata ai fornelli: «un giorno vennero fin sotto il nostro ingresso alcuni giovani con una grossa automobile aperta dietro insistendo di voler entrare per mangiare. Ma tutti i tavoli erano come al solito occupati. A questo punto il caposala Ciro più noto come “Capo Ultrà”, che regola gli ingressi degli avventori, attribuendo con voce stentorea alle persone che sono in fila un nome da lui creato per l’occasione, li invitò a fare un giro dell’isolato ma anche al loro ritorno i posti non si erano liberati. Ciro a questo punto prese un tavolo e glielo piazzò sul “pick up”, sfidandoli a pranzare in mezzo ad altri clienti che attendevano il proprio turno. I giovani non accettarono l’invito che fu invece raccolto da una coppia di sposi veneta in viaggio di nozze, che fra gli applausi dell’improvvisato pubblico si accomodarono su questa insolita pedana. L’audacia degli sposi fu premiata con il pranzo offerto gratuitamente. Di tanto in tanto uno dei guagliòni, che non osiamo chiamare camerieri ma piuttosto veri attori, veste il tutù da ballerina, in questo caso per Carnevale ha vestito i panni di Cappuccetto Rosso, improvvisando passi di danza tra i tavoli, suscitando l’ilarità dei turisti stranieri e non che colgono l’occasione per scattare le loro foto ricordo, magari vicino ad un bidè di plastica che viene utilizzato quale insolita fruttiera.
Ma quali i motivi di tanto successo di Nennella?
I piatti preparati, con ottimi ingredienti ed eccellenti condimenti, si rifanno alle ricette di Concetta con una chiave di lettura nuova che la imprime Rita, la giovane Nennella moglie di Mariano.
In cucina c’è anche Maurizio, Tonia, Giovanna, Alessandra, Raffaele e Salvatore detto “’o Barzellettiere”. La storia della trattoria parte nell’immediato dopoguerra, quando Elisabetta Vitiello, chiamata “Nennella”, aprì un piccolo ristoro sui quartieri, dove preparava anche “ ‘a marenna ” di mezzogiorno ai netturbini e pochi piatti caldi come la trippa e la pasta e fagioli.
Dai dodici posti di un tempo oggi la trattoria ne conta 150. Il menù che varia ogni giorno viene illustrato a voce dai simpatici camerieri: si va dall’antipasto a base di panzarotti di patate, supplì di riso, rigorosamente fatti alla vecchia maniera, olive, verdure grigliate, salame napoletano; ai primi dove l’offerta cambia con la stagione, “pasta e patane” con la provola “azzeccusa”, che possiamo ben dire è il piatto forte.
Gli fanno buona compagnia la “pasta e fasul ” e la zuppa di ceci, ovviamente, dint ‘o pignatiell, la pasta e lenticchie, la pasta e piselli, spaghetti olive e capperi, la minestra maritata, i vermicelli con le vongole veraci i succulenti Manfredi con la ricotta per non parlare degli stupendi bucatini all’ amatriciana e per Carnevale ha trionfato una lasagna da leccare i baffi per chi ce l’ha. La lista dei secondi è altrettanto ricca e saporita anche se non si disdegna il fare il “bis” o prendere un “secondo” primo piatto.
L’intero menù andrà ordinato appena ci si siede per evitare che dei bocconi più prelibati rimanga solo il loro profumo. Ed ecco i camerieri guizzare come saette con piatti ricolmi di alici indorate e fritte, pizzette di baccalà, pollo arrosto, “tracchiolelle” di maiale arrostite, polpette fritte o al sugo, polpette di ricotta, mozzarella impanata e fritta.
All’uscita alzando gli occhi in alto c’ è il famoso panare che viene abbassato a richiesta del cliente che, per dare un concreto segno della propria soddisfazione, a panza china, vuole lasciare una mazzetta.
E per finire appena usciti ‘ “o bancariell” per gustare un nobile e caldo caffè Borbone servito a puntino da Enzo (Enzuccio o babà). Ancora una volta i detti sono la saggezza dei popoli, ci ricordiamo così del proverbio :”A’ panza è pellecchia, echiù ce miètte e chiù se stennecchia” !
Tra un piatto e l’altro abbiamo avuto modo di parlare anche con Concetta, la mamma di Mariano, Ciro e Salvatore che ci ha raccontato di presenze misteriose che si aggirano nei palazzi della Napoli antica.
E lei: «Abitavo negli anni Sessanta a Salita Pontecorvo e tenevamo ncopp ‘o terrazzo delle galline che rizzavano le penne quando volevo accudirle. Pasquale mio marito, che faceva ‘o chianchiere arrivava tardi la sera e io con lo scendere della notte vedevo camminare dei munaciell che scendevano da una scalinata con le candele accese e poi all’improvviso sparivano. Una volta bussarono alla porta due donne con un vistoso fazzoletto che copriva in parte il volto, mi dissero che volevano vedere per l’ultima volta la casa dove avevano abitato prima di me. Trasite, trasite, assettatv! ma quando feci per girarmi… scomparvero nel nulla. Pasquale, sopraggiunto da lì a poco, mi disse di non averle incontrate nelle scale. Decisi allora di cambiare casa e quando frettolosamente ritornai per prendere le mie cose, trovai nel mezzo della stanza nu “tàvuto” da cui si sentivano dei lamenti che mi dicevano di andare via da quella casa». Anche oggi la giovane “Nennella”, la signora Rita, racconta la “sua” storia di fantasmi.
«Una casa che dovevo fittare era infestata da presenze occulte che non permisero né a me nè a mio marito Mariano neanche di fittarla anche se il prezzo era interessante e la casa molto grande. Eravamo percorsi da brividi di freddo che ci fecero fuggire e alle persone che abitavano in zona fece esclamare: “ È un’altra prova che fin quando non si esorcizza questa casa, non sarà mai fittata”. Venni a sapere poi che da anni non si riusciva a trovare un inquilino a causa dell’aggirarsi di un’entità misteriosa che i vicini attribuiscono all’anima di una vecchina cacciata dalla sua casa che morì di crepacuore subito dopo.
Ancora una volta a Napoli la morte e la vita vanno a braccetto.
Harry di Prisco