Una cultura, un segno, un prodotto, cessano di esistere quando non riescono più a comunicare.
Il patrimonio tradizionale agroalimentare italiano conta più di 700 tipologie di formaggio, 160 varietà di pane, 280 salumi differenti.
E non abbiamo preso in considerazione le novità, quei prodotti nati in seno ad una singola azienda o produttore grazie all’estro personale. Si tratta di prodotti e specialità gastronomiche di carattere fortemente identitario, diversi uno dall’altro per materia prima, tecniche di trasformazione, caratteristiche organolettiche ma soprattutto per territorio, storia e tradizione.
Di questo patrimonio inestimabile che il mondo invidia –e sempre più spesso scimmiotta vergognosamente- solo un 20% compare una volta l’anno sulla tavola del consumatore medio italiano, il restante 80% non soddisfa la caratteristica di mediocrità del mercato globale: lunga durata sugli scaffali, facile stoccaggio, assenza di muffe e croste, ridotto impatto olfattivo e gustativo.
Gli stranieri paradossalmente sono molto più attratti da queste autentiche meraviglie golose, autentici prodotti di cultura materiale che reclamano la propria dignità sociale, il legame con il territorio, con la storia e con gli Uomini che quella storia rappresentano. L’ostacolo più grande che questi prodotti hanno è proprio farsi conoscere fuori dalle mura domestiche, dove è radicata una forte connivenza con il malaffare dei mezzi di (dis)informazione e con una ristorazione in gran parte incapace e incompetente. Tanto che anche in Italia le abitudini alimentari medie si sono lentamente e progressivamente semplificate fino a deteriorarsi: non per mancanza di curiosità o possibilità di creare prodotti straordinari, in virtù dell’esperienza di cui si dispone e della bontà del clima, ma come risultato del colpevole asservimento a logiche e interessi di poche ma straordinarie potenti lobbies agroindustriali. Anche e soprattutto da parte della categoria a cui appartiene chi scrive.
La presenza su una guida, l’indicazione in un libello spesso è legata alla disponibilità di quell’azienda di rendersi disponibile a finanziarne la citazione; cosa che è possibile solo per le realtà più strutturate e che si rivolgono a un pubblico allargato e, tristemente, medio.
Esiste però in Italia anche un fenomeno sempre più frequente di riavvicinamento alla campagna da parte dei giovani, un controesodo che interessa persone che hanno sperimentato la vita di città, spesso nelle università, e che scelgono coscientemente la campagna.
Vi arrivano con rinnovata forza e interesse, con l’obiettivo di ridare vita e forma a culture e prodotti che per 20, 30 o 40 anni sono stati assopiti, travolti dalle aspirazioni di alimenti anonimi, impersonali, privi di tratti distintivi e assoggettati a requisiti igienicosanitari quantomeno discutibili.
Trasferiscono in ogni loro manufatto l’identità dei luoghi arricchita dalla cultura ricevuta e spesso transnazionale, la sensibilità verso la natura e il benessere privi dei dogmi imposti dagli ayatollah delle aziende sanitarie locali.
Nel prossimo mio contributo avrò il piacere di raccontare alcune valide esperienze e continueremo a farlo per illustrare quanto sia opportuno scoprire un’Italia che non sale sui palcoscenici, non partecipa alle squallide trasmissioni televisive di gare tra quaquaraquà, ma è autentica grazie alla rivincita ed al riscatto delle campagne che tante ragazze e ragazzi, uomini e donne contadini acculturati, hanno saputo realizzare.
Riccardo Lagorio